Artchipel Orchestra plays Soft Machine

12.50

  • Artist(s): Artchipel Orchestra
  • Composer(s): Soft Machine
  • EAN Code: 7.93611610392
  • Edition: Da Vinci Jazz
  • Format: 1 Cd
  • Genre: Orchestral
  • Instrumentation: Orchestra
  • Period: Contemporary
Email
SKU: C00173 Category:

Additional information

Artist(s)

Composer(s)

EAN Code

Edition

Format

Genre

Instrumentation

Period

Description

Questo secondo cd dell’Artchipel Orchestra (uscito originariamente in allegato alla rivista Musica Jazz nel settembre 2014, dunque tra Never Odd or Even, del 2012, e To Lindsay, del 2017) è dedicato a brani dei Soft Machine scritti da Hugh Hopper e Robert Wyatt quando avevano fra i ventitré e i venticinque anni.
Il disco si apre con la conduction che serve da preludio a Facelift, composizione che nell’album Third (pubblicato il 6 giugno 1970) è parimenti introdotta da un’improvvisazione. Una Facelift incisa il 10 giugno 1969 era già presente nell’album Bbc Radio 1967-1971, il migliore dei tanti live postumi dei Soft Machine, ma la prima pubblicata occupava un’intera facciata del Third e combinava due registrazioni dal vivo del gennaio 1970 con nastri fatti scorrere al contrario e altre alterazioni di studio.
Kings and Queens, incisa il 9 novembre 1970, viene dall’album successivo, 4 (uscito il 28 febbraio 1971). Di poco precedente è la prima testimonianza live del brano: Amsterdam, Concertgebouw, 25 ottobre 1970. L’arrangiamento Artchipel aggiunge alle parti strumentali un testo cantato: la prima strofa di The Bird Did Prance – The Bee Did Play di Emily Dickinson.
Noisette non esiste come tale nella discografia ufficiale dei Soft Machine, anche se in Third la Slightly All the Time di Mike Ratledge (registrata il 6 maggio 1970) si conclude proprio con quel tema di Hopper seguito da quello di Backwards del tastierista. La prima apparizione documentata di Noisette è però in un concerto londinese del 13 aprile 1969, mentre in Bbc Radio 1967-1971 se ne ascolta un’interpretazione del 10 novembre 1969.
Noisette è uno dei due brani non arrangiati da Ferdinando Faraò ma da Beppe Barbera: l’altro è Dedicated to You but You Weren’t Listening, che su Volume Two (inciso nel febbraio-marzo 1969 e pubblicato subito dopo) era un cangiante acquarello per voce, clavicembalo e chitarra acustica, e nella versione Artchipel è affidato alle sole voci, ispirandosi liberamente all’arrangiamento per ance del Delta Saxophone Quartet. Nel cd dell’Artchipel, Dedicated to You è anche l’unico brano registrato nel piccolo Lift Studio anziché alle gloriose Officine Meccaniche (che il 14 gennaio e 25 febbraio 1967, quand’erano ancora studi Regson, ospitarono fra l’altro due sedute di Duke Ellington).
Mousetrap non fu mai incisa in studio, benché fosse una presenza assidua nei concerti, come quello londinese del 13 aprile 1969 e quelli pubblicati sui cd Noisette, Facelift, Somewhere in Soho (ristampato in lp con il titolo Ronnie Scott’s Jazz Club), Breda Reactor (in lp: Live at Het Turfschip) e, in una registrazione del 10 giugno 1969, nel Bbc Radio 1967-1971 (alcuni brani del quale – tra cui una Mousetrap del novembre ’69 – erano già in Triple Echo e poi in The Peel Sessions).
Dopo cinque titoli di Hopper, ecco infine Moon in June di Wyatt, uno dei quattro estesi brani che componevano il doppio lp Third. La prima versione è stata restaurata nel 2013 per il cd ’68 di Wyatt ma quella trascritta da Giovanni Venosta e arrangiata da Faraò attinge in buona parte dal solito Bbc Radio 1967-1971: la seduta è ancora quella del 10 giugno 1969, subito prima della quale Wyatt scarabocchiò un ulteriore (meta)testo, ripreso dall’Artchipel mescolandolo con quello «ufficiale».
Tutta questa girandola di date fa pure piazza pulita di un luogo comune della critica facilona: quello che iscrive i Soft Machine (e in particolare il Third) tra i seguaci di Bitches Brew. A parte il fatto che il gruppo inglese nasce nel 1966 (quindi ben prima persino di Miles in the Sky), Bitches Brew esce il 15 maggio 1970 e dunque non può aver influenzato un disco inciso prima di quella data e contenente composizioni già nelle scalette live da più d’un anno; per non dire di Moon in June, che non solo viene registrata in prima stesura nell’ottobre ’68, ma ingloba pure citazioni da That’s How Much I Need You Now e You Don’t Remember (incise dai Soft Machine nel 1967), oltre che da Singing a Song in the Morning e Hat Song di Kevin Ayers.
Alla luce delle improvvisazioni live di Middle Earth Masters (1967) pare piuttosto infondata anche la netta distinzione tra i Soft Machine «jazz» o «rock jazz» e quelli di «pop psichedelico». Né si può dire che fossero una formazione di progressive rock, la cui nascita è infatti ben posteriore a quella del gruppo e alle sue complesse partiture, basate su metri additivi e semmai influenzate da compositori come Bartók, Šostakovic e Don Ellis (che i tre ascoltavano fin da ragazzini) oltre che da soul, free jazz, rhythm’n’blues, Terry Riley, patafisica e musica indiana.
Il jazz, in particolare, fu per loro non meno determinante del rock. In un’intervista a DownBeat, Wyatt ricorda: «L’anno [1967] in cui furono lanciati i Soft Machine è l’anno in cui morì John Coltrane. San John, per me. E mi viene in mente quel che succede nella foresta quando cade un albero davvero gigantesco. Improvvisamente si apre un vuoto nel sottobosco, dove nascono moltissimi alberelli che si protendono verso la luce del sole: è la vita che si riafferma. Ma quegli alberi giganteschi non spuntano da un giorno all’altro. Perciò nella mia mente – persino nel fiore irriverente della gioventù – la nostra apparizione alla luce del sole è sempre stata legata all’incomparabile bellezza di ciò che avevamo perduto».
Del resto, un diciassettenne Ratledge aveva parlato per la prima volta con il quindicenne Wyatt per chiedergli in prestito At Newport: the Gigi Gryce – Donald Byrd Jazz Laboratory and the Cecil Taylor Quartet ed è noto che alla base dello stile solistico dello stesso Ratledge fosse l’idea di trasporre su un organo con distorsore e wha wha il pianismo tayloriano (un esempio di come i Soft Machine abbinassero spesso le sonorità più rock ai momenti più jazzistici, con il corollario altrettanto frequente di articolazioni jazzistiche celate nelle scansioni più rock).
Negli stessi mesi, quando gli adolescenti Wyatt e Hopper ebbero l’occasione di incidere un acetato con qualche coetaneo in una cabina pubblica di registrazione a pagamento, cantarono ’Round about Midnight ed Evidence. Dal fratello maggiore, Wyatt ascoltava «Ellington, il bebop, Cecil Taylor, il primo quartetto di Don Ellis con Jaki Byard, Mingus Presents Mingus», mentre Hopper – oltre a riconoscere il debito iniziale verso Paul McCartney, James Jamerson, John Entwistle e Larry Graham – si è sempre detto altrettanto influenzato da Charlie Haden, Charles Mingus, Scott LaFaro, Jimmy Garrison e Ron Carter.
Benché all’epoca i brani dei Soft Machine non fossero mai stati suonati da una big band (arrivando tutt’al più ad aggiungere quattro fiati al trio Ratledge-Hopper-Wyatt), gli arrangiamenti jazzistici dell’Artchipel hanno dunque trovato un terreno già fertile. E ne ricavano i frutti saporiti colti da questo cd.

Note di Alessandro Achilli